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The Son of Hamas

Vincitore del premio del pubblico della sezione World Cinema Documentary del Sundance, arriva in Italia Il figlio di Hamas – The Green Prince, documentario sulla storia incredibile del palestinese Mosab Hassan Yousef, figlio di un dirigente di Hamas che collabora con i servizi segreti israeliani. Figlio di un importante leader di Hamas, il giovane palestinese Mosab Hassan Yousef viene rinchiuso in una prigione israeliana. Mosab matura una conversione inaspettata e diviene un informatore dello Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza interna israeliano, con il nome in codice “Green Prince”. Per oltre un decennio spia dall’interno l’elite di Hamas. Nel frattempo si fa sempre più stretto il suo rapporto con il suo referente israeliano, Gonen Ben Yitzhak, colui che per primo gli aveva proposto di fare il collaborazionista. Una storia davvero straordinaria quella di Mosab Hassan Yousef, che, cresciuto nella culla del fondamentalismo islamico palestinese, si allea improvvisamente con il “diavolo”, con il paese che è stato educato a vedere come il nemico giurato. Una storia raccontata dallo stesso Mosab nel libro autobiografico Figlio di Hamas, che non poteva non approdare sul grande schermo. Il regista Nadav Schirman sceglie di metterla in scena in forma di documentario, di cui è uno specialista. La storia e i suoi personaggi sono effettivamente così perfettamente cinematografici che non c’è la necessità di ricostruirla con degli attori. Schirman è in effetti specializzato nel raccontare conflitti famigliari che si intrecciano a intrighi internazionali. Nel suo primo documentario, The Champagne Spy racconta di un ragazzo e di suo padre agente del Mossad, mentre nel suo secondo, In the Dark Room, protagoniste sono la figlia e la moglie del terrorista Carlos.

Sia ben chiaro, Il figlio di Hamas – The Green Prince non aggiunge molto e non aiuta ad approfondire il conflitto sanguinoso israelo-palestinese che si trascina ormai da decenni. E il film è abbastanza appiattito sulla posizione israeliana. Con l’unica eccezione del ritratto che Mosab fa di suo padre, dirigente di Hamas, descritto come una persona molto attiva nel sociale, e il cui fondamentalismo religioso affonda la propria radice proprio in questo suo attivismo caritatevole. Ma a parte questa sfaccettatura, per il resto il film non pone altri dubbi su da che parte stiano i buoni, sul fatto che Mosab abbia fatto la cosa giusta. Che si sia comportato da eroe. Che abbia fatto una scelta coraggiosa, peraltro anteponendo un ideale ai legami famigliari e nazionali. Che sia un informatore e non un collaborazionista. E la sua stessa conversione appare molto facile, non travagliata e comunque non approfondita. È lo stesso aspetto estetico di Mosab, fascinoso dai lineamenti tenebrosi mediorientali, e comunque più occidentale e moderno dei suoi connazionali palestinesi, a farne il perfetto eroe. Lo vedremo poi su una spiaggia in California, dove vive in esilio, negli USA simbolo di libertà. Lo schematismo manicheo è comunque funzionale a quello che vuole fare il regista, cioè un film di genere sotto le sembianze del documentario, un “docu-thriller” o una “docu-spy story”. E da questo punto di vista Schirman sa mettere in scena un meccanismo perfetto, dal pathos e dalla suspense crescenti. Tutto giocato sulla narrazione in montaggio alternato tra il racconto di Mosab e quello di Gonen Ben Yitzhak, il suo referente nello Shin Bet, con cui si dipana il racconto. Che in definitiva è una classica storia di amicizia virile tra nemici o ex nemici.
Voto: 8.5

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